Il Contesto Storico Artistico
L’IDEA DI CITTA’ IN EUROPA ALL’INIZIO DEL NOVECENTO
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, salutato con grandi aspettative come il secolo del progresso tecnologico e dell’innovazione industriale, le grandi città in espansione si apprestano ad affrontare il futuro ipotizzando un riordino urbanistico che consentano un migliore assetto sociale. I modelli emergenti sono diversi. Ebenezer Howard (1858-1928) concepisce in Inghilterra le sue Garden Cities non solo come progetto, ma come insieme di principi, di norme e di procedure. Le matrici della sua proposta s’ispirano all’utopia di Robert Owen e alla predicazione antiurbana di John Ruskin proponendosi di decongestionare le città storiche, decentrando la popolazione in nuclei abitativi di nuova formazione circondati dal verde, appunto le “città giardino” dalle dimensioni ridotte (non più di trentaduemila abitanti), dotati di adeguate infrastrutture e di servizi pubblici e collegati al centro storico attraverso una rete di mezzi di trasporto. Le industrie vengono collocate ai margini degli abitati, lungo le linee ferroviarie. Il progetto, rappresentato in veste ideogrammatica, individua alla fine una serie di centri satelliti sufficientemente lontani l’uno dall’altro in modo da evitarne la saldatura e garantirne l’indipendenza.
Il modello delle City Garden ha successo e viene realizzato in almeno due casi, Letchworth e Welwyn fra il 1904 e il 1926, con una tipologia abitativa semplice (non suggerita da Howard, che lascia liberi i costruttori di scegliere ciò che più a loro conviene), case mono o bifamiliari su due piani isolate o a schiera, ma gli agglomerati urbani raddoppiano il numero degli abitanti rispetto alle regole tracciate dal fondatore.
Mentre Howard propone un’idea di città che di fatto ne blocca l’eccessiva dilatazione e vagheggia una possibilità di esistenza simile alle comunità medioevali, sia pure in chiave moderna, il francese Tony Garnier nel 1901-1904 elabora un progetto integrale della città nell’età industriale disegnando ogni sua parte con cura di dettagli (opifici, centrali idroelettriche, servizi e abitazioni) applicando sistematicamente la tecnica del calcestruzzo armato. Anche lui rifiuta di cimentarsi con la sovradimensione di una metropoli, e sceglie di occuparsi di una città di media grandezza, individuandone peraltro anche la possibile ubicazione: una pianura attraversata da un corso d’acqua e punteggiata da rilievi. In tale scacchiera a più livelli distribuisce con attento calcolo della funzionalità le varie zone, abitazioni, industrie servizi generali e di quartiere, attrezzature sportive e per gli svaghi, distinguendo nettamente nella rete stradale i percorsi pedonali da quelli per il traffico motorizzato. Il tessuto urbano viene mantenuto a bassa densità, condizionato dall’asse eliotermico (l’orientamento verso il sole) con abitazioni unifamiliari e condomini studiati in diverse varianti. Schemi di impianti muniti di precisi riferimenti alla modernizzazione tecnologica si riveleranno utili nello sviluppo della pianificazione successiva.
Di particolare importanza per Garnier è lo studio degli insediamenti industriali da correlare alle zone abitate mediante un’efficiente disposizione delle infrastrutture prive di reciproche interferenze. Da notare che, proprio per agevolare lo scorrimento dell’intenso traffico automobilistico e dei trasporti su mezzi pesanti, anche l’ingegnere parigino Henard nel 1905 ha tracciato nel quartiere industriale strade a più livelli.
MILANO 1900 ALL’EPOCA DELLA TRASFORMAZIONE
La città che subisce più di ogni altra città italiana l’onda impetuosa dell’industrializzazione, Milano, non ignora gli stimoli provenienti dalle nuove teorizzazioni di urbanistica. Senza voler insistere più di tanto sulle influenze di teorie provenienti dal centro Europa, va rimarcato che l’idea di Howard viene applicata da una cooperativa che si propone di costruire una città/giardino nell’area compresa fra Cusano Milanino e Cinisello Balsamo, bandendo un concorso “per un villino moderno” al quale partecipa anche il giovanissimo Sant’Elia: il nuovo quartiere “verde” viene realizzato in gran parte. Ben più rilevante il coevo progetto finanziato da due grandi complessi produttivi, Pirelli e Breda, per costruire un’intera complessa cittadella dell’industria a Milano Nord nell’area verso San Giovanni, segno evidente che anche l’ipotesi formulata da Garnier poteva avere un’incidenza nell’area metropolitana Ma questo rimane sulla carta allo scoppio della Grande Guerra, lasciando inesplorato un importante, forse decisivo sbocco all’espansione urbana fuori dalle rigide maglie dei piani regolatori. Il percorso resta quindi condizionato dal radiocentrico piano Beruto (1884) che, smantellando le antiche mura spagnole di confine e sostituendole con la nuova cerchia dei Bastioni, assegna alle aree centrali la funzione privilegiata di rappresentanza. Era una struttura a macchia d’olio solo in parte modificata dal successivo piano Pavia-Masera (1910) in una città che dai 314.817 abitanti del 1881 passa ai 600.612 del 1911 (prima e immediatamente dopo il piano Beruto), con un incremento della superficie fabbricata che porta nello stesso periodo i locali abitativi da 260.000 a 480.000.
La fisionomia milanese muta rapidamente in pochi decenni, riservando alla borghesia i quartieri all’interno della cerchia dei Bastioni, respingendo in periferia il proletariato e concentrando gli investimenti di capitale sulle aree centrali: sono gli anni in cui viene aperta via Sempione (oggi via Dante) , si sistemano il Cordusio e Foro Buonaparte, le aree del Castello Sforzesco e di piazza d’Armi, gli anni del rifacimento della fronte del Duomo. Gli anni in cui la cura del prestigio architettonico cerca solide referenze nella tradizione del patrimonio culturale italiano, anche per il ripristino dei monumenti: si va dalla scuola dominante di Camillo Boito, cultore del restauro “filologico” alla lezione “stilistico-romantica” di Luca Beltrami e Gaetano Moretti. Contro il culto della salvaguardia storica la reazione modernista si affida all’esempio viennese della scuola di Otto Wagner e dei suoi allievi, dei suoi severi e rigorosi palazzi dalle linee armoniose. Il tardo-liberty, le linee secessioniste si confrontano con l’eclettismo variamente declinato di Boito/Beltrami nei concorsi pubblici e nelle esposizioni, mentre nelle università e nelle accademie in cui si formano ingegneri e “professori di disegno architettonico”, vengono diplomati per lo più validi, virtuosi esperti dell’ornato o strenui difensori della conservazione, ma poche figure di autonoma validità creativa, come, nel caso della corrente più incline all’impulso novecentista, Ernesto Basile, Raimondo D’Aronco, soprattutto Giuseppe Sommaruga (1867-1917). Una delle più ardite realizzazioni di quest’ultimo, L’Hotel Tre Croci a Campo dei Fiori (Varese) situato su un’altura e raggiungibile attraverso una funicolare, è stato più volte paragonato a soluzioni costruttive che caratterizzano il linguaggio santeliano della maturità: ci si riferisce ai potenti contrafforti che reggono i massicci edifici della Città Nuova, a confronto dei giganteschi montanti adottati da Sommaruga per reggere verticalmente i fabbricati posti a strapiombo sulla valle sottostante all’albergo del Varesotto.
Sta di fatto comunque che queste presunte derivazioni da opere in bilico fra presente e passato, tradizione e modernità, e la stessa formazione culturale di stampo secessionista, sono per Sant’Elia soltanto un momento di transito. Questo era l’ambiente architettonico in cui era cresciuto, bruciando le tappe dell’apprendimento scolastico. A lui tuttavia non premeva approfondire lo studio dei singoli edifici di un centro urbano, ma esaminarlo nel suo insieme, definire come poteva essere configurata l’immagine viva di una città futuribile, una megacittà che non temesse il carico estremo di una popolazione cresciuta a dismisura, come lasciavano intendere le solleticanti prospettive della foresta di grattacieli in crescita di una lontana, fantascientifica New York, che sulle riviste italiane appare soltanto sotto forma di illustrazioni fantasiose di disegnatori e non mediante veritiere immagini fotografiche. La Città Nuova santeliana non cerca di frantumarsi in tanti agglomerati indipendenti, come nelle ipotesi dell’avvenirismo urbano del primo Novecento, ma ardisce profilare panorami di una sintesi estrema. E’ questa la novità che la distingue, come seppe comprendere al suo esordio nelle mostre milanesi del 1914 un critico/architetto che pure somigliava ben poco a Sant’Elia per gusto, formazione, tendenza, Giulio Ulisse Arata.
A.L.